Alcuni di noi amano sperimentare nuovi modelli o tecniche diverse per insegnare l’italiano e lavorare sulle diverse abilità, e spesso ci sembra di raggiungere dei buoni risultati ma non riusciamo a dimostrarlo scientificamente. Ebbene, il testo che vi presento oggi – G. Pallotti, C. Borghetti, F. Rosi, Insegnare a scrivere nella scuola primaria. Il progetto Osservare l’interlingua, Caissa Italia, Bologna – aspira ad essere (e realmente è) un “libro di glottodidattica sperimentale”, nel senso che racconta un percorso didattico proposto nelle classi ma attentamente monitorato, in modo da poterne controllare – secondo un protocollo quasi scientifico – i risultati.
Lo studio è legato al progetto pluriennale “di sperimentazione educativa e di formazione degli insegnanti” Osservare l’interlingua, promosso dal Comune di Reggio Emilia e dall’Università di Modena e Reggio Emilia, e coordinato da Gabriele Pallotti. Esso ha coinvolto un ampio numero di scuole della provincia, per lo più primarie (ma anche secondarie di primo grado), frequentate da un alto numero di studenti non nativi (viene posto subito qualche dubbio sulla distinzione nativo/non nativo: gli autori preferiscono parlare di piuttosto di monolingui vs. multilingui). Vi hanno collaborato anche tirocinanti dell’università e altre ricercatrici, in particolare Fabiana Rosi e Claudia Borghetti, coautrici del libro.
Il cap. 2 si incentra su un concetto cardine per chi si occupa di acquisizione di una seconda lingua (L2): l’interlingua (= IL), definita come “un sistema linguistico separato […] che risulta dai tentativi, da parte di un apprendente, di produrre una norma della lingua d’arrivo” (Selinker, 1972). La lingua degli apprendenti cioè non viene vista come un insieme senza regole e farcito di errori, ma come un sistema governato da regole precise, che sono universali e transitorie. Dopo aver lavorato tanti anni sull’IL (si vedano La seconda lingua e i tanti articoli scaricabili dal suo sito), Pallotti propone qui un’ipotesi innovativa, ossia che tale concetto si possa estendere anche alla L1, in particolare in riferimento all’acquisizione della lingua per la scrittura. Nessuno di noi è infatti nativo della varietà standard della lingua presupposta dalla scrittura: i bambini imparano a leggere e scrivere nella loro lingua materna seguendo percorsi provvisori che assomigliano a quelli della IL. I loro testi contengono errori, che però nella prospettiva della IL non vengono stigmatizzati, ma sono guardati in positivo come tappe di un processo evolutivo. In polemica neppure tanto velata contro la tradizione normativa della scrittura nella scuola italiana, il progetto Osservare l’interlingua propone allora un esperimento di apprendimento della scrittura nuovo e fecondo, che accomuna tutti i bambini, mono e multilingui, al cui centro non sia tanto il prodotto finale, quanto proprio il processo attraverso cui si impara a scrivere, il metodo cooperativo e lo sviluppo della motivazione verso l’attività scrittoria stessa.
I capitoli 3 e 4, di Claudia Borghetti, sintetizzano i più importanti studi internazionali sulla scrittura: se il 3 presenta i modelli che hanno messo in luce i processi cognitivi tipici dello scrittore esperto (in particolare quelli di Flower-Hayes e Bereiter-Scardamalia), il 4 è focalizzato invece sull’apprendimento della scrittura da parte dei bambini e degli adolescenti e ci dà utilissimi spunti sulle capacità di formulare, pianificare e revisionare il testo che essi hanno nelle diverse età scolari. Insiste inoltre sul fattore della motivazione, evidenziando come la scrittura sia un’attività sociale che si sviluppa molto meglio in gruppo, lavorando con i pari, con l’aiuto degli adulti. Su questi studi – in gran parte compiuti in altri Paesi – si fondano dunque le scelte sperimentate nel progetto.
Il cap. 5 si sofferma invece sull’insegnamento della scrittura nella scuola italiana, che ha ricevuto una certa attenzione a partire dalla fine degli anni Ottanta con la battaglia contro il tema e l’introduzione delle nuove proposte provenienti da oltreoceano; tuttavia poche di esse hanno attecchito nella realtà scolastica, e non paiono comunque aver scalfito l’idea di molti secondo cui la scrittura sarebbe un dono ineffabile (Colombo, Una didattica essenziale della scrittura, 1997, cit. a p. 64). In Italia purtroppo l’approccio orientato al processo – che ha tra i suoi obiettivi anche quello di promuovere il piacere della scrittura (p. 66) – non ha mai preso quota.
Con il capitolo 6 si entra più decisamente nel tema: Gabriele Pallotti illustra il Progetto Osservare l’interlingua nelle sue finalità e principi metodologici trasversali (p. 87) riassumibili nei seguenti punti: prima osservare e poi intervenire; una valutazione formativa; un approccio basato sui processi; lavoro di gruppo; autonomia e metacognizione; terminologia minima e motivazione.
Fabiana Rosi propone poi un esempio di percorso tipo sul testo narrativo, prototipico per la maggior semplicità di organizzazione delle informazioni e perché più gradito a insegnanti e bambini. Spiega tuttavia che con lo stesso metodo si è lavorato su tipologie testuali diverse e che gli insegnanti erano invitati a creare percorsi propri, nel rispetto delle linee guida. Riassumendo l’iter didattico, i bambini dovevano produrre in proprio un testo prima e dopo il lavoro di gruppo, a partire da due filmati differenti. Tra le due produzioni, lavoravano insieme sul primo filmato con l’obiettivo di raccontarlo ad un loro docente che non lo aveva visto, senza nessuna valutazione da parte del docente. Seguivano un percorso basato sul processo: delimitavano le scene del filmato, davano i titoli a ciascuna scena e la raccontavano inserendo i testi in contenitori specifici (scatole di cartone o buste). Dopo di che ciascun gruppo costruiva il proprio ‘progetto’ (termine più accattivante del più tradizionale scaletta) “articolato in unità informative principali e secondarie”, sulla base del quale stendeva il testo. La revisione di ciascun testo veniva fatta dagli altri gruppi in un cartellone A3: ciascun gruppo revisionava un aspetto del testo, col metodo “due stelle e un augurio” (indicando cioè due aspetti positivi e suggerendo un miglioramento). Quindi il testo veniva restituito al gruppo che lo aveva scritto il quale poteva modificarlo (o meno) sulla base del feedback ricevuto. Ogni gruppo leggeva poi alla classe testo iniziale e finale, illustrando anche il perché delle proprie scelte. Nel percorso si dava ampio spazio alla metacognizione, per cui i bambini arrivavano a scrivere le regole per produrre un buon testo e a confrontarsi su di esse. Infine, i bambini vedevano un altro filmato e dovevano comporre un loro testo. Senza che l’insegnante lo imponesse, molti di loro seguivano lo stesso processo, preparando prima un progetto di testo e mostrando quindi di aver inteso l’importanza della fase di pianificazione, affatto scontata alla loro età. Facevano quindi un’auto-revisione e raccontavano ai compagni il loro percorso. In tutto questo lavoro, l’insegnante era presente, pianificava attentamente, guidava i bambini nei diversi passaggi ma interveniva il meno possibile. Non correggeva e non valutava, nella convinzione che sia fondamentale “sviluppare negli alunni l’autonomia che, assieme alla metacognizione, è un ingrediente essenziale per avviare dinamiche di apprendimento di lungo periodo” (p. 100).
Nei capitoli 7- 9 vengono proposti i criteri ed i risultati della sperimentazione vera e propria, condotta su un totale di 14 classi (dalla seconda alla quinta primaria), delle quali 7 sperimentali e 7 di controllo. Entrambe avevano un’importante percentuale di bambini multilingui, spesso non nati in Italia ma arrivati da breve tempo e quindi con un livello linguistico basso. Tale percentuale era maggiore nelle classi sperimentali (36% vs. 24% delle altre). Sono dunque attentamente analizzati i risultati del percorso, per quanto riguarda sia gli atteggiamenti e motivazioni dei bambini elicitati attraverso un questionario (ad esempio la coesione della classe, il piacere dello scrivere, il rapporto con i compagni, cap. 8), sia le competenze linguistiche vere e proprie (cap. 9). La qualità dei testi prodotti all’inizio e alla fine del percorso è stata valutata attraverso misurazioni oggettive sulla base degli indicatori scelti (coesione, coerenza, referenti, punteggiatura, paragrafazione, uso dei connettivi e della punteggiatura…), descritti analiticamente nel capitolo 6, che può dare interessanti spunti su come valutare un testo scritto, con una serie di griglie di correzione.
Nel complesso le classi sperimentali appaiono essere più coese, più motivate verso le attività di scrittura e meno ansiose. Anche i testi in esse prodotti appaiono decisamente migliori dal punto di vista linguistico rispetto a quelli delle classi di controllo. Il dato più importante che emerge– sostiene Pallotti – è che non sono solo singoli bambini a progredire, ma è l’insieme di tutti i bambini delle classi sperimentali, che avevano al loro interno un terzo di multilingui e che alla fine del percorso risultano essere molto più omogenee al loro interno rispetto alle altre (p. 161). Per concludere con le pregnanti parole di Pallotti:
la maggior uniformità all’interno delle classi sperimentali … è una manifestazione concreta di quell’ideale di inclusività di cui si parla molto nei documenti […] ufficiali e nei dibattiti pedagogici. Questa sperimentazione mostra che si possono raggiungere ottimi risultati anche senza organizzare percorsi differenziati, laboratori speciali (se non nelle prime fasi di accoglienza), materiali diversificati, senza dividere la classe in alunni con o senza bisogni speciali […] Una didattica inclusiva non nega l’esistenza delle differenze, ma le affronta senza proporre interventi differenziati, bensì percorsi che favoriscano la partecipazione di tutti, ciascuno con le sue modalità e possibilità, facendo leva sulla collaborazione tra pari” (p. 176).
Non sarebbe il caso di provare questa metodologia?
Per chi fosse interessato, ecco il video dell’incontro con Gabriele Pallotti: