Mi capita spesso di essere invitata da università, associazioni e scuole, per parlare, a studenti universitari o a docenti di italiano, di grammatica. È un tema che mi appassiona, e sul quale ho scritto a più riprese, sia in termini di descrizione di oggetti grammaticali, sia in termini di didattica della grammatica, e mi piace sempre confrontarmi su questi temi con i colleghi che operano nella scuola. Tuttavia la gran parte degli inviti si incentrano su un tema specifico, vale a dire la grammatica valenziale. Ne ho parlato, infatti, in innumerevoli occasioni, di cui ho perso il conto. Non c’è dubbio che la grammatica valenziale sia diventata, ultimamente, un argomento di moda, i corsi organizzati sul tema sono affollati, e non c’è quasi nessuno, anche tra i docenti più conservatori e affezionati cultori della grammatica tradizionale, che non voglia almeno capire di cosa si tratta. Talvolta penso che sia capitato al modello valenziale la sorte preconizzata, e paventata, qualche decennio fa, dal linguista padovano Lorenzo Renzi. Il quale, intervenendo nel dibattito sull’insegnamento della grammatica e sulla ricerca di un nuovo modello grammaticale che potesse sostituire con profitto le pratiche tradizionali, scherzava su un fantomatico docente di italiano particolarmente sprovveduto, alle prese con un “oscuro terrore: che esista qualche teoria linguistica moderna che si può insegnare al posto della grammatica tradizionale con risultati miracolosi, e che lui sia il solo a non saperlo” (1977***, p. 70). A rileggerla oggi, questa frase scherzosa, sembrerebbe che quella “teoria linguistica moderna” sia stata trovata, finalmente, ed è il modello valenziale.
Sia chiaro: io sono una convinta sostenitrice della utilizzazione didattica del modello valenziale, che ha mostrato di essere, almeno nei suoi risvolti più semplici, molto intuitivo, e quindi facilmente utilizzabile anche con i bambini della scuola primaria. La metafora della scena (rappresentata dalla frase), in cui si realizza un evento (rappresentato dal verbo), grazie al concorso di attori protagonisti (le valenze o argomenti) funziona bene con i bambini, e li introduce all’analisi della frase attraverso un passaggio che fa appello alla loro naturale predisposizione alla creazione di mondi fantastici e al gioco. I maestri e i ricercatori che hanno usato il modello con i bambini delle prime classi della primaria riferiscono del loro coinvolgimento anche fisico nella rappresentazione delle scene, cioè delle frasi, e dei benefici di lungo periodo di questa introduzione alla grammatica (Cannavò 2020; Lo Duca 2018; Morgese 2017; Vedovato, Zanette 2019; Vedovato, Zanette 2021).
Un libro appena uscito mi dà oggi l’opportunità di tornare sull’argomento, per chiarire un punto che a me pare di grande importanza. Il libro si chiama Didattica della grammatica valenziale: dal modello teorico al laboratorio in classe, è uscito nell’ottobre 2020 per i tipi della Carocci, ed è a cura di Loredana Camizzi. Il libro presenta i risultati di un progetto di ricerca e sperimentazione didattica promosso dall’INDIRE negli anni 2016-2018 sotto la supervisione di Francesco Sabatini, e con il coinvolgimento di parecchie decine di ricercatori, fra esperti, osservatori e docenti delle scuole (sono stati coinvolti 5 istituti di Palermo). Come si sa, Francesco Sabatini è stato (ed è) un assertore convinto della assunzione del modello valenziale nella pratica didattica, ed ha dedicato a questo tema decine di interventi, oltre a due manuali scolastici dedicati alla scuola secondaria di I e di II grado (Sabatini, Camodeca, De Santis, rispettivamente 2014 e 2011).
Ma torniamo al progetto INDIRE. Come lo stesso Sabatini scrive nella Presentazione, il progetto mirava non solo a proporre stimoli all’innovazione disciplinare attraverso un’assunzione consapevole e condivisa del modello valenziale. Un secondo obiettivo, importante quanto il primo, era introdurre, nell’ambito più generale della riflessione sulla lingua, pratiche di tipo “laboratoriale”, di coinvolgimento attivo dei discenti. Naturalmente si tratta di due obiettivi molto ambiziosi: si è voluto puntare a un rinnovamento dei contenuti (il “che cosa” insegnare), cui si accompagnasse però un rinnovamento del modo di fare grammatica in classe (il “come” insegnare).
Si trovano nel libro molti spunti interessanti relativi a questo binomio che viene visto come inscindibile, quasi naturalmente indotto dal modello valenziale. Così ad esempio a p. 26 si scrive che il progetto stesso è nato dall’idea che “l’introduzione del modello valenziale possa modificare non solo il contenuto ma anche le modalità di insegnamento della grammatica e di conseguenza sortire degli effetti positivi sia sulla motivazione allo studio sia potenzialmente sui risultati di apprendimento”. E ancora: “L’osservazione e video-documentazione di pratiche significative… ci ha fatto rendere conto di come il modello sembri spostare il modo di insegnare dei docenti sia dal punto di vista dei contenuti sia da quello delle metodologie didattiche, che assumono un carattere più attivo e laboratoriale”. Quindi il libro si incarica di dimostrare come una nuova prospettiva teorica (il modello valenziale) conduca quasi inevitabilmente a una nuova prospettiva didattica (il modello laboratoriale).
Ma perché, come mai si crea questa felice connessione? Lo spiega in primis Francesco Sabatini quando scrive: “L’introspezione sui propri meccanismi cognitivi e linguistici (via obbligata, nell’applicazione del modello adottato) comportava necessariamente la partecipazione attiva degli alunni e quindi un’organizzazione dialogata, partecipata, a gruppi in continuo confronto, dello studio in questo campo” (ivi, p. 13). Sicuramente, nella interpretazione di Sabatini e dei ricercatori di INDIRE, il modello valenziale si è caricato di questo valore aggiunto, dato dalla convinzione che nella lezione di grammatica si dovesse fare appello alla competenza implicita degli studenti, ai loro “meccanismi cognitivi e linguistici”. E che quindi in classe bisognasse coinvolgere direttamente gli allievi su temi quali, ad esempio: quanti argomenti ha il verbo baciare? e il verbo mettere? e il verbo ridere? e così via. Posto di fronte a questi piccoli problemi da risolvere, lo studente non può far altro che interrogare la propria competenza di parlante nativo, e risalire per questa via agli elementi necessari e sufficienti a formare una frase. Questo è, infatti, il modo in cui si è proceduto nella sperimentazione di cui dà conto il libro, e di cui sono forniti moltissimi esempi, dalla primaria al biennio superiore.
Ma cosa succede se non coinvolgo gli studenti nella ricerca, se salto il primo passaggio e non chiedo loro, poniamo, quanti argomenti ha il verbo X? Se, come docente, avendo poco tempo e tante cose da fare, avessi l’idea di accelerare il percorso adottando un’altra strada? Io riesco a immaginare una modalità pedante e demotivante di presentazione del modello valenziale: la lezione che si apre con la definizione di verbo e di valenza, seguita da liste di verbi zerovalenti, mono-, bi-, tri-, tetravalenti, accompagnati da esempi, pochi casi facilmente e indiscutibilmente etichettabili, e infine esercizi di riconoscimento ed etichettatura, spesso più problematici degli esempi, e di fronte ai quali gli studenti non sanno che fare. Vi pare del tutto assurda e strampalata questa visione?
Io penso che qualunque disciplina, qualunque contenuto, anche il più aggiornato e scientificamente fondato, diventi poco appetibile e demotivante se presentato come prodotto già confezionato da assumere e memorizzare, e senza coinvolgere attivamente il cervello del discente. Solo un problema chiaramente individuato – un caso anomalo o imprevisto, una definizione che non regga alla prova dei fatti, una domanda cui non si sappia rispondere ma alla nostra portata – fa scattare le molle della curiosità e dell’interesse, cui segue la ricerca della soluzione. Quindi vorrei dire agli amici dell’INDIRE, e a tutti noi: vigiliamo! La vocazione trasmissiva della vecchia scuola potrebbe prima o poi fare capolino persino nel modello valenziale.
*** l’articolo si trova in Renzi L. (1977), Teorie linguistiche moderne e didattica della lingua materna, in Renzi L. – Cortelazzo M. (a cura di), La lingua italiana oggi: un problema scolastico e sociale, Il Mulino, Bologna, pp. 55-73.