Attenzione, lavori in corso. Che fine faranno le Indicazioni Nazionali 2012?

Nei mesi scorsi, il ministro Valditara ha sostenuto che nelle Indicazioni nazionali 2012 “c’è troppa roba” , che “dobbiamo conoscere le esperienze più importanti del nostro passato”, che ”bisogna pensare a programmi nuovi in linea con la società moderna” e che insomma nell’insegnamento “deve prevalere la qualità sulla quantità”. Viene da chiedersi, ma allora, “l’alfabetizzazione di base e quella culturale” sono un’accozzaglia di “tanta roba” messa lì? Dove ci sarebbe da sforbiciare, e con interventi di quale tipo? Quali sarebbero i programmi nuovi in linea con la società moderna?

Sulla spinosa questione di mettere mano alle Indicazioni nazionali (di seguito IN) è intervenuto con piglio appassionato Franco Lorenzoni; non da meno è seguita la pacata intervista ad Italo Fiorin, cui ha fatto eco Paolo Mazzoli con una sintesi articolata sulla genesi del documento. In assenza di informazioni precise sui criteri di modifica, sulla commissione che dovrà occuparsi di rivedere il testo, di riscriverlo solo parzialmente o in modo integrale, allineo alcune brevi considerazioni in attesa che l’iniziativa del ministro si chiarisca. In primo luogo, vorrei precisare che le IN non sono una guida zeppa di tanta roba, ma rappresentano piuttosto un impianto teso ad assicurare le strumentalità di base, quali, ad esempio, la padronanza sicura della lingua italiana. Sono state costruite, al contempo, per fornire a ciascuno le conoscenze irrinunciabili in matematica, storia, scienze, geografia, necessarie al seguito degli studi. Semmai sono i libri di testo dell’editoria scolastica ad essere pieni di “roba”, infarciti come sono di minuziose classificazioni, in una frenesia di obiettivi e competenze assai lontani dagli asciutti, eppure significativi traguardi delle IN. Sussidiari, antologie, libri di lettura e manuali divenuti vere e proprie fonti improprie di programmazione in cui il docente svolge la funzione vicariale di mero esecutore. E in questa esplosione di carta (Dobbiamo fare tutto il libro!) il compito dello studente è quello di ricordare tanta roba appunto, non certo quello di apprendere ciò che è importante, di pensare, di interrogarsi, di formulare ipotesi.

Comunque, nessuno afferma che le Indicazioni non si possano o si debbano rivedere, anzi chi scrive, avendo partecipato ai lavori di stesura, conosce bene quanto già nelle intenzioni della Commissione fossero contemplate eventuali modifiche. Infatti, al contrario della rigidità normativa dei programmi, la natura flessibile delle IN, la loro apertura alle autonomie scolastiche e alle sperimentazioni come le misure di accompagnamento successive all’entrata in vigore, dimostrano quanto esse intendessero favorire un dialogo con gli insegnanti per coinvolgerli in un percorso professionale e culturale. Del resto, le stesse IN sono nate da un lavoro collettivo, aperto e frutto di mediazione tra le competenze dei molti esperti disciplinari consultati dal Ministero e dai contributi provenienti dal mondo della scuola che si confrontava quotidianamente con lo spaesamento educativo e le fragilità sociali. Ne uscì un corpus unico, la cui premessa “Cultura, scuola, persona” disegnava subito il progetto forte di un’alfabetizzazione che non lasciava fuori nessuno, anzi affermava che “La padronanza degli strumenti culturali di base è ancor più importante per bambini che vivono in situazioni di svantaggio: più solide saranno le capacità acquisite nella scuola primaria, maggiori saranno le probabilità di inclusione sociale e culturale” pag. 32.

La seconda parte, cioè la declinazione successiva in traguardi per le competenze e obiettivi di apprendimento non era che l’articolazione operativa di concetti forti, di una visione della scuola promotrice di democrazia e di integrazione, garantita dal raggiungimento di competenze indispensabili, chiare e ben descritte.
Certo, le IN non sono affatto un documento neutro, rivelano piuttosto un impianto “etico e politico” affermato dalla costituzione agli articoli 21 “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.” e 34 “La scuola è aperta a tutti.” La Costituzione infatti promuove un’idea precisa di scuola aperta a tutti e un’idea dell’educazione linguistica che, oltre a veicolare ogni apprendimento, collega il processo di alfabetizzazione all’esercizio di cittadinanza per disegnare il profilo di un cittadino che “sa stare al mondo” e partecipa alla vita democratica. Pertanto il diritto alla parola (articolo 21) è “Parte integrante dei diritti costituzionali e di cittadinanza è il cui esercizio dovrà essere prioritariamente tutelato ed incoraggiato in ogni contesto scolastico e in ciascun alunno, avendo particolare attenzione a sviluppare le regole di una conversazione corretta.“

Come giustamente osservava Marco Rossi Doria (Convegno per i 50 anni del Giscel, 1° giugno 2023 – Roma) tra le diverse fonti culturali delle IN emerge anche l’eredità del Giscel che nella 4^ Tesi dell’educazione linguistica individuava il possesso della lingua come presupposto per partecipare alla vita democratica.

Per questo, le Indicazioni Nazionali tornano più volte sull’oralità, sia quando precisano che la scuola “crea favorevoli condizioni di ascolto e di espressione tra coetanei”, sia quando sottolineano che “la pratica delle abilità linguistiche orali nella comunità scolastica passa attraverso la […] predisposizione di ambienti sociali di apprendimento idonei al dialogo, all’interazione…”

A ben guardare tutte le Indicazioni Nazionali sono infatti un cantiere della parola (Convegno per i 50 anni del Giscel, 1° giugno 2023 – Roma), un’officina pensata per l’educazione alla cittadinanza, delineata da termini strategici come “parola”, “conversazione”, “dialogo”, “confronto”, “opinione”, “discorso”. Non esiste una sola pagina di quel documento in cui non si valorizzi l’enorme potere della parola perché le parole sono importanti. Chi ne possiede poche spesso rimane ai margini della vita sociale; e quando non riesce a farsi capire, potrebbe a volte trasformare in violenza l’incapacità di dare nomi alle emozioni e ai sentimenti. Vediamo quotidianamente quanto la parola sia usata in modo improprio, offensivo e distorto, e quanto nella scena politica, da ogni parte, la lingua sia impoverita e manipolata, piegata alla banalizzazione dei significati, ridotta nelle sfumature.

Perciò la scuola è chiamata a farsi carico di un urgente problema etico e civile che già le Dieci Tesi dell’educazione linguistica avevano individuato nel lontano 1975, ma che si ripresenta ora con maggiore urgenza. In quegli anni, la prima Tesi rappresentava un’apertura rivoluzionaria a un approccio funzionale della lingua e mostrava la centralità dell’educazione linguistica. Oggi, la presenza invasiva dei nuovi strumenti di comunicazione, le sfide dell’IA e i conflitti mondiali ci spingono a rivalutare la parola come mezzo di conoscenza, di incontro con l’altro e di argomentazione motivata. Inoltre la ripetuta violazione delle regole della comunicazione ci impone di insegnare ai bambini le regole di un parlato rispettoso; le frequenti condizioni di disagio degli adolescenti ci chiedono di esplicitare in parole i sentimenti della loro solitudine esistenziale. Infine la complessità sociale ci suggerisce di porre particolare attenzione alla parola dialogata, soprattutto dove compaiono nuove sacche di povertà, non solo nelle periferie urbane ma anche in luoghi fino ad ora impensabili. Infatti non esistono solo le povertà educative del Sud, ma esistono altre forme di esclusione sociale, molto diffuse: dalle periferie di ogni città alle aree interne e presenti anche in retroterra familiari drammatici, sparsi nelle varie regioni, che costringono all’emarginazione o che creano nuove fragilità. Esistono sempre più bambini “difficili”, taciturni, problematici, per i quali il possesso della lingua italiana è un potente antidoto al semianalfabetismo che li condannerebbe alla passività, al silenzio, all’esclusione.

Ci auguriamo dunque che il ministro Valditara non consideri “troppa roba” un documento che rappresenta un’esortazione civile, articolato con sapienza per ogni apprendimento di base necessario, un testo la cui ambizione è quella di delineare proprio l’idea di una cittadinanza italiana in “linea con la società moderna” e, dunque un’idea complessa perché contempla le uguaglianze e le differenze, le contraddizioni e la riflessività del pensiero che si traduce in parola.