Intervista impossibile a don Lorenzo Milani

Questo articolo è apparso sulla rivista quadrimestrale “Enciclopedia Italiana”, n. 12, Novembre 2022, edita da Treccani, Roma. Viene pubblicato su questo sito per gentile concessione dell’autore e dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani.

Il 27 maggio 2023 cadrà il primo centenario della nascita di don Lorenzo Milani. Dopo tante celebrazioni di anniversari della morte – 26 giugno 1967 –, e dunque di un’assenza, non può passare sotto silenzio, finalmente, il ricordo di una presenza, che ha lasciato segni duraturi in molti ambiti: scuola, educazione, fede, apostolato, pacifismo, economia, sociologia… Tra coloro che hanno letto le sue pagine toccanti, molti hanno sognato, a loro rischio e pericolo, di incontrarlo. Queste pagine sono il risultato di uno di quei sogni.

Monastero certosino su un eremo impervio. Intorno cielo azzurro, nuvole bianche e verdi colline lontanissime. La porta della cella è socchiusa. Si vedono quadri colorati alle pareti. Don Milani sta dipingendo davanti alla finestra.

Permesso?

Chi è?

Scusi, Priore, posso?

Chi è!

Sono Riccardo ma non…

Non conosco nessun Riccardo. È un giornalista? Se è un giornalista se ne vada subito.

No, no, non sono un giornalista.

Di giornalisti per bene ne ho conosciuti solo due o tre in tutta la mia vita. Gli altri diecimila sono dei gran venduti, dei falsi e dei presuntuosi.

Sì, sì, lo so…

Comunque lei è certamente un intellettuale. Solo gli intellettuali rompono i coglioni. E non parlo degli intellettuali di destra. Quelli non li considero neppure. Dico quelli di sinistra, quelli che credono di lavorare (lavorare!) per i poveri quando non sanno neppure che faccia hanno, i poveri.

Scusi, Priore, ma anche lei è un intellettuale…

Io sono nato intellettuale. Lo era la mia stirpe, la mia famiglia, mio padre, mio nonno, il mio bisnonno, per non parlare delle nonne e delle bisnonne… ma è un abito che ho buttato alle ortiche, una pelle che mi sono scorticata tutta, un pezzo alla volta. Io sono nato intellettuale e me ne sono liberato. Voi invece lo siete diventati. È per questo che non abbiamo niente in comune.

Sì, Priore, ora lo abbiamo capito.

Ce n’avete messo di tempo!

È vero, ma bisogna comprendere le «circostanze e le umanità in gioco». L’ha detto un papa, quando è venuto a Barbiana per renderle omaggio.

«Umanità in gioco» un bischero! L’ho detto e ridetto cha la Curia doveva fare uno sforzo di comprensione, un gesto appena un po’ ecumenico e molto cattolico perché mansiones multae sunt. Ci sono tanti modi di fare apostolato. Gliel’avevo detto anche in latino a quell’indemoniato del cardinale Florit! Quale papa è andato a Barbiana? Paolo VI?

Papa Francesco, nel 2017.

2017… c’hanno messo cinquant’anni! Del resto me l’aspettavo: «Peccato che sarò morto da un pezzo» avevo scritto al mio amico Meucci, nel ’53. Ma va bene uguale. Cosa sono cinquant’anni di ritardo nella storia millenaria della Chiesa. Io sono contento così.

Quindi nessun rimpianto? Nessun ripensamento? Guardi che la sua scuola è chiusa, le sue idee sono ancora un’utopia e per alcuni un incubo. L’ingiustizia sociale regna sovrana non solo in Toscana e in Italia, ma su tutta la Terra.

Non rimpiango nulla. Se è andato tutto a ramengo, I don’t care anymore. Tradotto: me ne frego.

Ma il suo motto, priore, era I care, me ne importa.

Sì certo, sulla Terra. Nella vita terrena devi interessarti agli altri, al tuo prossimo, a chi sta accanto a te e sta peggio di te. Questa è la Buona Novella: Cristo ti ama e ti manda a portare il suo amore, la sua preoccupazione, la sua prossimità. Una volta a Gesù chiesero: chi è il mio prossimo? E Lui raccontò la parabola del Buon Samaritano che si santifica nell’incontro casuale, come il Cireneo, che tornava dai campi, e fu costretto a portare la croce. La santità è nella casualità. Bisogna saperla vedere. Io ho sempre lasciato che agisse Lui. Ho operato dove mi ha messo e con le persone che mi ha fatto incontrare. Non ho cercato neppure don Bensi, il mio padre spirituale. Me l’ha presentato un amico…

A proposito di don Bensi, molti si chiedono, don Lorenzo, come avvenne la sua conversione-vocazione. Nessuno in famiglia era credente, tutti agnostici, per non parlare del suo bisnonno, il professor Comparetti, che era un autentico mangiapreti.

In realtà, se guardate bene, qualche prete e qualche frate lo trovate anche nella mia famiglia, ma comunque non pensate che la conversione sia un lampo, uno squarcio nel velo del Tempio. Anche per san Paolo fu una maturazione. Non credete alle balle delle folgorazioni sulla via di Damasco. Quelle sono le favole che raccontano agli ignoranti per non dovergli insegnare a leggere e scrivere. La conversione passa per la testa degli uomini.

Non vorrà dire che non c’è conversione e vera fede per gli analfabeti!

Non dico questo. Può succedere, ma succede nonostante siano ignoranti, non poiché sono ignoranti. Sono casi rari. La Grazia di Dio non sciala. Nei casi normali è un lungo processo.

Una volta lei ha detto: «Da bestie si può diventare uomini e da uomini si può diventare santi. Ma da bestie a santi d’un passo solo non si può diventare».

Bravo. L’ho scritto nel mio libro. Questa era la mia ‘esperienza pastorale’, la mia missione. Era la convinzione anche di quel sant’uomo di monsignor Bonanni, il mio primo parroco, poi rettore del Seminario fiorentino prima che lo cacciassero. È qui anche lui.

Per passare da bestie a uomini ci vuole la scuola.

Giusto. Era talmente ovvio. Invece si voleva piantare il catechismo nella testa delle bestie, attirandole con l’esca del pallone, del ping-pong, del cinema. Mi ricordo che era una gara al ribasso tra oratori e case del popolo. Si faceva a chi la sparava più mondana. È chiaro che su questo sdrucciolo vincevano sempre i comunisti. Che idiozia! Ma oggi come fate giù sulla Terra?

Oggi, Priore, non ci sono più né gli oratori né le case del popolo.

Fate finalmente scuola come a Barbiana?

No, Priore. Ci sono la scuola statale e quella privata parificata. Hanno tutte recepito un po’ della sua Lettera a una professoressa (Don Milani, Tutte le opere, 2 voll., ed. diretta da A. Melloni, a cura di F. Ruozzi, A. Carfora, V. Oldano, S. Tanzarella, Mondadori, 2017), ma poco, troppo poco.

Guardi che la Lettera non era mia. Era dei ragazzi barbianesi. L’hanno scritta loro, naturalmente con il mio aiuto. Ma stavo già molto male. Lì c’era tutto. Bastava mettere in pratica.

Purtroppo, Priore, abbiamo sbagliato tutto. Dovevamo essere più esigenti e lo siamo meno; dovevamo eliminare le differenze di classe sociale e le abbiamo perpetuate; dovevamo fare scuola a tempo pieno e non ci siamo riusciti.

Avevo detto che non era facile. Il problema non è come bisogna fare, ma come bisogna essere per fare scuola. Se non partite da lì, dall’essere e dalla scuola, non andate da nessuna parte e la vostra società non ha futuro. Per noi rabbini la conoscenza è sempre conoscenza carnale, conoscenza fatta carne, conoscenza interiore, conoscenza concreta, conoscenza essenza.

Capisco, Priore. Purtroppo si è persa la solidarietà, la responsabilità, il senso di comunità, il senso politico. Lei ha detto: «Sortirne insieme è la politica, sortirne da soli è l’avarizia».

Lo scrissero i ragazzi. Se uno non si prende cura dell’altro, le comunità delle comunità vicine, i popoli dei popoli vicini, vedo nuvole nere ai vostri orizzonti.

Guerre?

La guerra è lo sbocco inevitabile di un mondo diviso in oppressori e oppressi. Se volete la pace dovete mettere la scure alla radice dell’ingiustizia. Sono già venuti i missionari cinesi?

Non ancora. Comunque sono venuti molti cinesi.

Era una metafora. Magari verranno i missionari africani. L’Africa è l’unico continente che non ha la bomba atomica, dunque sopravvivrà al cataclisma e tutto ricomincerà da capo, magari meglio.

Ne riparliamo tra cinquant’anni?

Lasci perdere. Tanto lo so che le mie profezie prima o poi si avverano. Non ne ho sbagliata una.

Va bene, Priore. Non la disturberò più. Ma ora che fa in questo cielo eterno?

Faccio quello che avrei voluto fare nella vita laggiù, ma per una serie di circostanze non ho potuto fare: pregare Dio e stare nella sua Grazia. Sulla Terra ho dovuto preoccuparmi di tutt’altro, c’era un tale dislivello tra gli uomini, una tale ingiustizia che vedere quei poveri contadini e montanari, cioè il 99% del mondo, vivere come bestie a vantaggio dell’1% dell’umanità non mi dava pace ed era pietra di scandalo nel mio apostolato. Ci ho provato e il fatto di non esserci riuscito non mi rattrista né mi tormenta. I poveri si sono guadagnati il Paradiso per le sofferenze che hanno ingiustamente subito e io mi sono guadagnato il Paradiso perché ho sofferto con loro. Ed è stata una sofferenza gioiosa perché ci volevamo bene. Ho amato più loro che Dio, ma speravo che Lui l’avrebbe messo sul Suo conto e così è stato.

Comunque, qualche volta, torni a trovarmi.

Allora arrivederci, Priore e …. (ma il mio saluto si perde tra le note della Pastorale di Beethoven).