Contro il danno scolastico: per una lettura critica di Mastrocola & Ricolfi

Il recente libro di Mastrocola e Ricolfi (d’ora in poi MR) si legge d’un fiato, tanto è ben scritto e chiaro fin dal titolo: Il danno scolastico. La scuola progressista come macchina della disuguaglianza (La Nave di Teseo, 2021).

Con un titolo così, difficile immaginare che qualcuno possa fraintenderne il messaggio: la scuola di oggi, risultato di scellerate riforme “progressiste”, crea danni irreparabili ai suoi studenti e in particolare ai più svantaggiati, generando diseguaglianza invece di ridurla.

Eppure, nonostante il limpido linguaggio, la prima preoccupazione degli autori è proprio il rischio di fraintendimento, vale a dire “leggerlo come una proposta di ritorno alla scuola o all’università del passato” (p.11).

Ma sarebbe un fraintendimento? È ovvio che solo uno sciocco potrebbe “proporre” un ritorno al passato: indietro non si torna mai, e chi ci prova finisce sempre per creare una farsa da quella che una volta è stata una tragedia.

Tuttavia non saremmo del tutto sicuri che i due autori, se disponessero davvero di una bacchetta magica capace di “ricostruire” la scuola di una volta, non si precipiterebbero ad utilizzarla.

I riferimenti – puntuali, documentati, vissuti – agli aspetti positivi del passato (un passato che in certe pagine sembra precedere persino la riforma del 1962 sulla fine dell’Avviamento e la nascita della Scuola Media unica) e contro le progressive degenerazioni seguenti sono così numerosi che bisogna fare un bello sforzo a non considerare MR due intelligenti e convincenti “reazionari”.

Hanno ragione? Era meglio il sistema scolastico di una volta? Qui non vogliamo neppure tentare di rispondere a una domanda così difficile, sebbene certamente lecita. A parte i problemi (superabili) di definire il concetto di “meglio” e il significato di “una volta”, le variabili in gioco sono talmente tante che, con le nostre forze, preferiamo segnalare due aspetti non così centrali ma neppure tanto marginali.

a) MR citano Don Milani e la sua Scuola di Barbiana mostrando di non averla affatto capita.
b) Il modello quantitativo esposto nel capitolo finale e in appendice ha seri problemi di impostazione e misurazione della “qualità della scuola” che mettono in dubbio la validità dei risultati.

In attesa della pubblicazione del paper da cui sono tratti i risultati del modello vorrei trattare il primo aspetto.

1. La vecchia scuola era classista?

Mastrocola “scopre il libro di don Milani” (vale a dire Lettera a una professoressa, 1967, d’ora in poi LP) nel 2004 (caspita!), a 48 anni, con quasi 20 anni di insegnamento liceale (italiano e latino) sulle spalle.

Nonostante documenti, dichiarazioni, l’illustrazione dettagliata di un metodo diventato ormai famoso nel mondo (quello della scrittura collettiva), non ne vuol sapere di considerarlo il prodotto della Scuola di Barbiana, come è scritto a chiare lettere in copertina: un lavoro d’équipe – come un film o un’architettura – di Don Milani e dei suoi giovani allievi barbianesi. Per lei è il libro di Don Milani, il quale (come ha malignato qualcuno) si è chiaramente nascosto dietro ai suoi ragazzi per non incorrere nei fulmini dell’Arcivescovo di Firenze…. Come se il Priore, ormai sul letto di morte, potesse temere l’ennesima, ridicola censura da parte di quella Diocesi.

Comunque, secondo MR “il libro di don Milani” è alla base del disastro scolastico (anzi della catastrofe scolastica, poiché nel lessico di MR disastro è rimediabile, catastrofe no, p. 39), è il seme velenoso che ha, lentamente, progressivamente, inquinato tutta la scuola, dalle elementari all’università, con il contributo, negli anni, di molti corresponsabili, progressisti e di sinistra.
Purtroppo non solo Mastrocola non ha letto nient’altro di Don Milani (né Esperienze Pastorali (1958), né la Lettera ai Giudici (1965), così ricchi di riferimenti alla scuola) ma mostra di aver letto LP davvero molto male, vedendoci quello che non c’è scritto e non vedendoci quello che c’è scritto.
“Oggi l’unico vero metodo didattico che funzioni è stare alle calcagna tutto il giorno tutti i giorni a ogni singolo ragazzo… Certo un primo passo potrebbe essere che l’insegnante, al pomeriggio, invece di ricevere a casa propria i signorini in nero, rimanga a scuola, dedicandosi a un serrato face to face coaching con i propri allievi del mattino, quelli più in difficoltà”. Sembra Barbiana. Invece è Mastrocola (MR, p. 17 e p. 167).

Ricolfi, che è anche suo marito, classe 1950 e famiglia “agiata” (p. 43), racconta l’enorme “fortuna e privilegio” di aver evitato da ragazzo quella iattura chiamata Scuola media unica, che aveva messo assieme tutti i figli di tutte le classi sociali, abolendo per sempre il doppio binario divergente della scuola media per i figli delle classi superiori (come quella di Ricolfi) e della scuola di avviamento professionale per i figli delle classi inferiori, destinati a fare i garzoni a 14 anni.

Da notare che la scuola di avviamento, sulla scia della riforma Gentile (1923), era stata istituita nel 1928 da Giuseppe Belluzzo, Ministro dell’Educazione Nazionale, assieme al libro di Testo Unico per le elementari e alla definitiva “fascistizzazione” del sistema scolastico. Credo siano ben note alcune lucidissime pagine di Antonio Gramsci proprio su questo aspetto (1932, Q12, par. 2, pag. 1547).

Che faceva la scuola media “di una volta”? Aveva insegnanti preparatissimi e rigidissimi che bocciavano senza pietà: in classe da Ricolfi, 15 su 30 solo al primo anno (p. 46), da Mastrocola identica percentuale (MR, p. 93). Vi stupireste se vi dicessero (p. 49) che i sopravvissuti di queste stragi erano preparati e “avevano le basi”? LP l’aveva detto in modo molto efficace: la scuola “è un ospedale che cura i sani e respinge i malati”.

Timidamente Ricolfi si chiede: “Era classista quella scuola? Forse sì, almeno un po’” (p. 48).

Almeno un po’…. Persino l’Istat (1959) aveva indagato le “origini sociali” degli studenti della scuola media (al III anno) ed era rimasto colpito sia dal “numero molto limitato” dei figli di contadini (13%), “inferiore di gran lunga ad ogni aspettativa” dato che in quegli anni almeno un terzo degli occupati faceva quel mestiere, sia per la progressiva riduzione della presenza dei figli di “operai e coadiuvanti” al crescere del grado scolastico, dalle scuole di avviamento (50%) all’università (solo 11%), sebbene le loro famiglie rappresentassero in Italia il 62% del totale.

Mastrocola però non ci crede. Ha appena detto che in I media (1967) metà della sua classe fu bocciata (metà!) e torna a mettere in dubbio la selezione classista denunciata da LP. I “persi alla classe” e i “persi alla scuola”, su cui i barbianesi hanno fatto pionieristiche analisi longitudinali, non le dicono nulla. Si limita a constatare, con l’aiuto del marito, che “su 100 ragazzi e ragazze, la licenza media l’ha ottenuta il 92%”, in particolare 96% tra i ceti alti e 90% tra quelli bassi. “Il 90% di promossi non mi pare una débâcle” (MR, p. 95).

I dati Istat (quelli dell’Annuario Statistico dell’Istruzione) dicono una cosa molto diversa. Su 100 ragazzi partiti, con Mastrocola, in I media nel 1967 sono passati in II solo 75 e sono arrivati alla licenza solo 67. Un terzo si è perso, senza contare quelli (22%) che s’erano persi nei 5 anni delle elementari e di cui la prof delle medie, come scrive LP (p. 49), non sa nulla, “anzi, è convinta che non manchi nessuno. Ha studiato tanto latino, ma non ha mai visto un Annuario Statistico”. (E questa frase sembra proprio che sia stata scritta per la professoressa Mastrocola).

Dunque la scuola che boccia, la scuola seria, la scuola che dà le basi (a chi le sa prendere) è “almeno un po’” classista. È scritto a chiare lettere anche in LP (p. 60): “Voi sostenete d’aver bocciato i cretini e gli svogliati. Allora sostenete che Dio fa nascere i cretini e gli svogliati nelle case dei poveri”.

Eppure, di fronte alla montagna di evidenze empiriche, in Italia e nel mondo, sulla (im-)mobilità sociale e l’influenza della classe sociale d’origine sulle scelte e sui risultati scolastici degli studenti e sul loro successo nella vita lavorativa, MR (p. 98) dicono candidamente: “C’era chi andava bene a scuola, chi andava male e chi andava così così. Non mi pareva dipendesse in modo così categorico dal ceto”. Le differenze sociali mai entravano a scuola, “perfettamente democratica, ugualitaria”. Le famose parti uguali tra diseguali: diceva la professoressa di LP (p. 55): “ ‘Se un compito è da quattro io gli do quattro’. E non capiva, poveretta, che era proprio di questo che era accusata”.

2. Addio Monti?

Per MR il segno inequivocabile dello sfascio scolastico prodotto da LP è il rifiuto dissacrante dell’Iliade del Monti.

Scrivono i ragazzi di Barbiana: “Almeno fosse stato Omero. Era il Monti. Ogni tre parole due son d’Omero, una è parto della testolina del Monti, uno che scriveva una lingua che non era parlata neppure al tempo suo” (LP, p. 28). Ecco il sacrilegio: parlare male del “Cantami, o Diva, del Pelìde Achille…”, l’apoteosi della buona scuola di una volta. Ma non è meglio Baricco (2004): “Tutto iniziò in un giorno di violenza…”? No, perché Monti serve a imparare la parafrasi, con cui si allarga il lessico (Pelìde, Diva), si costruiscono e decostruiscono le frasi, si tocca la storia e la lingua “alta” (MR p. 106).

Non è difficile immaginare la risposta dei barbianesi: anche il contratto dei metalmeccanici (LP, p. 29) serve a imparare parole nuove, a costruire i periodi (analisi grammaticale, logica e del discorso) e a immergersi, mani e piedi, nella storia degli uomini.

Tutto si può dire della scuola del Priore tranne che non facesse studiare le parole: etimologie, significati, trasformazioni, connessioni, persino l’ortografia “perché gli errori ortografici smascherano i poveri”. C’è un articolo bellissimo, pubblicato da Don Milani su Adesso, nel 1958, a firma “Benito Ferrini”, in cui questo “studente” racconta le lezioni del Priore tutte incentrate sulle parole, con i collegamenti “dal disegno alle nebulose” al punto da far “voler bene alle parole”. Nella realtà “Benito Ferrini” era un povero ragazzo ritardato di Barbiana, l’ultimo degli ultimi, il cui nome, quella volta, il Prore volle gettare contro tutti i benpensanti, con lo stesso gesto tragico con cui il soldato Enrico Toti, nei sussidiari della buona scuola di una volta, gettava la sua stampella contro il nemico austriaco.

Secondo MR (p. 112) il libro di Don Milani vuole addirittura “eliminare la letteratura”. La scuola che faceva leggere Pirandello, Manzoni, Wilder, Goldoni, Pasolini, Tomasi di Lampedusa, che faceva recitare opere teatrali, studiare gli spartiti di Beethoven e analizzare i film di De Sica e Rossellini, voleva “eliminare la letteratura”?

La scuola delle 12 ore al giorno, per 7 giorni la settimana, per 12 mesi l’anno, senza ricreazioni e distrazioni, accusata di semplificare, facilitare, abbassare, divertire invece di comprendere, approfondire, innalzare?

Don Milani (speriamo non ci ascolti) descritto come uno che ha avuto “un merito grandissimo, cercava di salvare un mondo che stava scomparendo, i valori del mondo contadino, quella sapienza arcaica, naturale e profonda che ci veniva dalla terra, da quel lavoro paziente….” (MR, p. 114), dopo tutto quello che il Priore ha scritto sulla urticante mentalità dei contadini e dei montanari e dopo aver fatto di tutto per accelerare l’esodo dei suoi parrocchiani dai monti e dalle campagne, mettendo loro in mano una cultura della parola, “della lingua e delle lingue”, che colmasse l’abisso di differenza rispetto alle classi superiori?

Il fraintendimento di LP e della figura di Don Milani da parte di MR non potrebbe essere più pieno. Ogni volta lo si illustra, lo si analizza, lo si segnala ma poi al prossimo libro di MR si torna al punto di partenza. Forse è questo il “mastrocolismo”.

3. La falsa risposta all’art. 3

MR sottolineano l’art. 34 della Costituzione (messo anche in ex ergo al libro): “I capaci e meritevoli hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi” ma prima dell’art. 34 c’è l’art. 3: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”.

Il vero problema, che nessuno ha ancora ammesso a chiare lettere, è che la rimozione degli “ostacoli di ordine economico e sociale”, purtroppo, “non è un pranzo di gala”: comporta una redistribuzione di risorse e opportunità che non può essere indolore per tutti e soprattutto non può essere a favore dei ceti privilegiati, di cui fanno parte le classi dirigenti, il “partito italiano laureati” contro cui si scagliava, all’epoca, LP e oggi si scagliano con ampia documentazione (chiamandolo “Brahmin left”) Thomas Piketty (2020) e Gethin, Martinez-Toledano, Piketty (2022).

La soluzione “progressista”, come giustamente fanno notare MR, escogitata da quell’unica parte politica che aveva a cuore l’art.3 (MR, p. 41), è stata una tragica non-soluzione: scuola facilitata, abolizione di prerequisiti e propedeuticità, abbassamento degli standard d’istruzione (qualità dell’insegnamento, criteri di valutazione). La (ardua) rimozione degli ostacoli “al pieno sviluppo della persona umana” è diventata la (banale) rimozione degli ostacoli al titolo di studio, diventato segnale di una preparazione che non c’è più.

L’art. 3 è stato travisato; l’art. 34 completamente travolto. Ma in tutto questo travisamento e stravolgimento, giustamente denunciato da MR, LP non c’entra nulla, anzi, lungi dall’esserne la causa, potrebbe esserne, al contrario, la soluzione.

Per combattere le diseguaglianze, LP ha proposto una riforma della scuola che non coincide affatto, se non per caricatura, con quelle messe in atto in Italia negli ultimi decenni. La ricordiamo brevemente: essa era incentrata sulla scuola dell’obbligo ed era articolata in tre punti: 1) non bocciare mai, 2) tempo pieno a chi ha difficoltà, 3) obiettivi sociali a chi è svogliato: si studia non per la pagella, non per il diploma, non per i quattrini, perché essere “arrivisti a 12 anni” è da pochi. “La maggioranza dei vostri ragazzi odia la scuola. Il vostro invito volgare non meritava altra risposta” (LP, p. 24). Sopra tutto, vi era in LP la confidenza nell’impegno quasi missionario del corpo docente e nella dedizione e serietà di tutti i protagonisti, a cominciare dai genitori. Guardando alla scuola di oggi, con l’obbligo a 16 anni, si capisce quanto è lontana Barbiana.

    Bibliografia
    Baricco, A. (2004), Omero, Iliade, Feltrinelli.
    Gethin, A. , Martinez-Toledano, C. e Piketty, T. (2022), Brahmin left versus Merchant right: changing political cleavages in 21 Western democracies, 1948-2020, Quarterly Journal of Economics, 137, 1, pp. 1 – 48.
    Gramsci, A. (1932), Quaderni dal carcere, vol. III, a cura di V. Gerratana, Einaudi, 1975.
    Istat (1959), Indagine sulle scelte scolastiche e professionali degli alunni delle scuole medie inferiori, Note e Relazioni, n.6, Febbraio.
    Mastrocola, P. e Ricolfi, L. (2021), Il danno scolastico. La scuola progressista come macchina della disuguaglianza, La Nave di Teseo.
    Piketty, T. (2020), Capital et idéologie, Editions du Seuil, trad. it di L. Matteoli e A. Terranova, Capitale e ideologia, La Nave di Teseo, 2020.
    Scuola di Barbiana (1967), Lettera a una professoressa, Libreria Editrice Fiorentina.