Con questo post di Maria Cristina Peccianti apriamo una piccola serie di interventi (riflessioni, proposte didattiche e recensioni di materiali utili) dedicati all’italiano L2 nella scuola, tema sempre più importante dato il numero degli studenti non nativi o con background migratorio, ma piuttosto trascurato negli ultimi anni dalla scuola.
Secondo i dati ufficiali del Miur relativi all’anno scolastico 2021-2022 (vedi rapporto ISMU, aprile 2023), gli alunni stranieri sono tornati a crescere (+22.700), dopo una flessione dovuta alla pandemia e sono poco meno di 890.000 rappresentando il 10,9% del totale degli alunni della scuola italiana. La maggiore percentuale di presenze di stranieri si registra nella scuola primaria 14% e territorialmente nel Nord Italia, dove oscilla fra il 20 e il 24%. Più di due terzi (67%) di tutti gli alunni censiti come stranieri sono di seconda generazione, cioè nati in Italia da genitori immigrati.
In questo quadro, il primo dato da tenere presente è l’aumento inarrestabile degli stranieri che, unito alla diminuzione degli italiani, fa prevedere un futuro in cui la percentuale dei non madrelingua sarà ben superiore a quella attuale e sarà quindi sempre più importante considerare i loro particolari bisogni, e dare risposte atte a metterli in grado di superare lo svantaggio di partenza, secondo quanto previsto dalla nostra stessa Costituzione.
Il secondo è la presenza preponderante delle seconde generazioni che sta trasformando il capitolo stranieri in un quadro abbastanza stabile, non più caratterizzato dalla continua e imprevedibile necessità di far fronte a emergenze didattiche sempre nuove, dettate da neoarrivati sempre diversi. Anche se continuano ad esserci inserimenti di neoarrivati, la situazione non è più emergenziale.
Va tuttavia notato che se da una parte le seconde generazioni hanno delle caratteristiche comuni, avendo frequentato gli stessi anni di scuola (quanto meno primaria) dei coetanei italiani, dall’altra hanno bisogni didattici specifici, legati a un’identità incerta del loro italiano che non è L1 ma neppure una vera L2.
E in questa complessa situazione l’istituzione scuola cosa fa? Quali interpretazioni normative e didattiche dà della realtà delle classi multiculturali e dei bisogni degli alunni stranieri, di prima e seconda generazione?
Se proviamo a ricostruire una mini-storia delle risposte date a un problema che ha visto gli albori nei primi anni ’90, quando gli alunni stranieri erano lo 0,32%, vediamo che ci sono state fasi diverse.
Il primissimo momento è stato quello che oserei chiamare dello shock: gli insegnanti sono stati destabilizzati dall’incapacità di comunicare con i nuovi alunni e dall’essere chiamati ad affrontare una nuova frontiera senza avere gli strumenti, e hanno soprattutto cercato di essere accoglienti.
Con l’aumentare dei numeri (erano tuttavia appena 240.000 venti anni fa), siamo entrati nella crisi dell’emergenza, con la scuola in affannosa ricerca di supporti di vario tipo. È stato un periodo in cui abbiamo visto nascere diverse iniziative, da parte delle singole istituzioni scolastiche, di associazioni e soprattutto degli Enti locali che hanno fornito servizi di vario genere, dai mediatori culturali ai laboratori di L2; sono stati promossi studi, corsi di formazione, convegni di specialisti, progetti pilota. Dal punto di vista ministeriale tuttavia ci si è mossi con scarse risorse e interventi parziali, con molte belle parole sull’accoglienza e l’intercultura, ma ben poche azioni concrete.
Escono nel 2006, a cura del Ministero le prime “Linee guida per l’accoglienza e l’integrazione degli alunni stranieri” in cui si trovano due scarse paginette dedicate alla L2, infarcite di enunciazioni di necessità pienamente condivisibili, ma senza traccia alcuna di interventi specifici per la loro realizzazione.
Le Linee guida vengono aggiornate e pubblicate nuovamente nel 2014, ma il tono e la sostanza non cambiano molto, anche se si dedica maggiore spazio al tema dell’apprendimento linguistico.
Intanto esce nel 2012 un documento importante che ha avuto e ha un peso non indifferente nell’organizzazione didattica, nell’approccio a problemi e diritti di alcune categorie di alunni, compresi gli stranieri. Si tratta della Circolare Ministeriale del 27 dicembre 2012, dal titolo “Strumenti d’intervento per alunni con bisogni educativi speciali e organizzazione territoriale per l’inclusione scolastica”.
Come sappiamo, la Circolare introduce per gli alunni con bisogni educativi speciali, i cosiddetti BES, la personalizzazione della didattica, attraverso un Piano Didattico Personalizzato (PDP) che può prevedere anche misure compensative o dispensative.
Le categorie dei BES, oltre ai DSA, comprendono anche alunni con svantaggio socioeconomico, linguistico, culturale, fra cui vengono espressamente citati gli stranieri.
Su questo documento, che rimane tuttavia valido, anche a distanza di undici anni e con una situazione del quadro stranieri in continua evoluzione, molto ci sarebbe da dire, a cominciare dall’idea infelice di mettere insieme i bisogni di alunni con disturbi specifici di apprendimento con quelli di chi deve solo imparare la lingua italiana, rischiando di confondere strumenti e metodologie. Pensare poi di risolvere il problema dell’apprendimento dell’italiano L2 con un Piano Didattico Personalizzato che, su proposta del consiglio di classe, deve essere redatto per ogni singolo alunno e approvato dalle famiglie, significa non rendersi conto della realtà della scuola. I numeri ci dicono infatti che la presenza di alunni con background migratorio è sempre più strutturale e sempre più si evidenzia la necessità di interventi di ampio respiro.
Interventi di questa sorta tuttavia non se ne vedono. L’istituzione della classe di concorso A23 di italiano L2 aveva fatto nascere delle speranze, ma sono durate poco e le cattedre attivate tutt’oggi sono in numero irrisorio, con la quasi totalità dei docenti abilitati impiegati nei CPIA.
Nel 2022 escono nuovi aggiornamenti delle linee guida, con il titolo di “Orientamenti Interculturali. Idee e proposte per l’integrazione di alunne e alunni provenienti da contesti migratori.” E se vi troviamo un effettivo aggiornamento sul panorama dell’oggi, con la messa in evidenza dei diversi tipi di studenti stranieri, rimangono costanti le affermazioni astratte quanto alla L2. Le proposte mancano infatti di un avallo concreto che preveda le risorse necessarie per la loro attuazione, sia in termini di personale sia di mezzi e strumenti. A meno che non si pensi che la semplice enunciazione di intenti, come quella che leggiamo a pp. 32-33 del nuovo documento, sia di per sé taumaturgica.
Si propongono cinque azioni/attenzioni da collocare in un piano di insegnamento/apprendimento dell’italiano L2, diffuso e di qualità, da realizzarsi in maniera capillare e continuativa in collaborazione con enti, associazioni, insegnanti specialisti, studenti universitari e volontari.
Sulle cinque azioni previste (insegnamento/apprendimento dell’italiano per gli alunni neoarrivati; azioni per lo sviluppo e il potenziamento dell’italiano dello studio; attività territoriali di accompagnamento all’inserimento e di aiuto allo studio; formazione dei docenti; potenziamento dei posti nella classe di concorso A23) possiamo essere d’accordo, ma meraviglia che per la loro realizzazione si chiamino in causa i soggetti più disparati, piuttosto che mettere prima di tutto la scuola in grado di svolgere con successo il compito che istituzionalmente le spetta.
E le seconde generazioni? In quale misura la scuola si fa carico dei loro bisogni? Quali strategie organizzative e didattiche mette in atto per colmare il divario linguistico rispetto ai coetanei italofoni?
Purtroppo questi alunni stanno rischiando di risultare trasparenti in mezzo alle mille difficoltà e nuove emergenze che la scuola si trova ad affrontare. Dal momento che se la cavano nella comunicazione quotidiana, pur avendo anche lì delle difficoltà, si tende a considerare “normali” i loro usi linguistici inadeguati, a rassegnarsi e ad accettare con un certo fatalismo taluni errori. i loro errori?
Mentre si individuano e si denunciano soprattutto le criticità a carico del così detto Italstudio, il quale tuttavia orienta l’insegnante più verso l’obiettivo di fare imparare delle nozioni, che verso un utilizzo volto in primis ad accrescere le competenze linguistiche.
Sarebbe invece opportuno non rassegnarsi e “combattere”, cominciando, ad esempio con il chiederci quali siano i punti critici comuni di questi alunni, le lacune da colmare e i punti di forza, come il bilinguismo, su cui far leva. Acquisire così degli elementi di conoscenza su cui basare le scelte didattiche è sempre molto importante, ma lo è ancora di più nel caso della L2 la cui voce non è prevista nei documenti di valutazione, con la conseguenza di avere su di essa un monitoraggio vago e limitato, che non aiuta né gli alunni né gli insegnanti.
In conclusione possiamo dire che il quadro che emerge appare tutt’altro che incoraggiante E traspare una scarsa volontà da parte dell’istituzione scuola di prendere atto della realtà delle classi multiculturali e dei bisogni specifici degli alunni stranieri, di prima e seconda generazione, così come dei bisogni dei loro insegnanti, lasciati soli ad affrontare nodi didattici per cui non sono stati preparati e ad improvvisarsi insegnanti di L2.