Recensione di Alice Borgna, Tutte storie di maschi bianchi morti…, Laterza, 2022
Scrivere una recensione asettica a questo volume, lo premetto, mi è impossibile. Alice Borgna chiama in causa una gamma di valori etici, sociali e politici correlati – oggi più che mai – all’insegnamento delle lettere classiche da non lasciare indifferente chi, come la sottoscritta, lavora in un luogo deputato alla realizzazione di giustizia e pari opportunità: la scuola pubblica.
Tutte storie di maschi bianchi morti esce per la serie Fact Checking di Laterza ed in effetti dedica la sua ampia prima parte a riportare su binari corretti il dibattito americano sulla “decolonizzazione” dei classici greco-latini, che media e social media europei hanno semplificato, apparentandolo a deprecabili forme di cancel culture. Borgna declina, attraverso una scrittura dal ritmo appassionante, la complessità del dibattito d’oltreoceano, permettendo di comprenderne da un lato lo stretto legame con il contesto culturale successivo all’elezione di Trump, dall’altro lo sforzo, interno ad una parte del mondo accademico anglofono, di ripensare la disciplina in un’ottica inclusiva degli studiosi appartenenti a minoranze etniche. Il punto è, ci rassicura Borgna, non tanto discutere se sia meritevole leggere Omero, quanto permettere che chi studi Omero non lo faccia sempre e solo dal punto di vista occidentale e “bianco”.
Interessante notare che in questa articolata disamina l’autrice evita di prendere esplicita posizione: ritornerà sul tema nelle ultime pagine sposando – solo in parte – le istanze dei riformatori americani e ammonendo dai rischi connessi ad un’adesione troppo partecipata.
Ma veniamo alla seconda parte, che si apre al capitolo 3 “Il Tevere mormorò: non passa lo straniero. Le reazioni in Europa” e che sposta la focalizzazione sul dibattito europeo e più specificamente nazionale. Qui Borgna modifica l’atteggiamento, ergendosi a paladina degli studi classici, minacciati non tanto dal dibattito americano quanto da un nemico pervasivo e strisciante che abita la penisola: il sistema di Utilopoli. Lo studio del greco e del latino, in un mondo dove i finanziamenti per ricerca e istruzione si distribuiscono essenzialmente sulla base dei profitti, soffre di tagli sia a livello accademico, dove non attrae gli studenti per la lentezza del percorso formativo (colpevole di obbligare allo studio della “lingua”) che impedisce un rapido posizionamento sul mercato del lavoro; sia a livello di istruzione superiore, dove ha subito negli anni svariate contrazioni e reso il liceo classico appannaggio di un percentuale esigua di studenti. Gli altri percorsi liceali, parallelamente, offrono uno studio sempre più annacquato del latino, materia ritenuta tanto difficile quanto inutile anche, e in modo preoccupante, dallo stesso legislatore.
Il ragionamento dell’autrice è articolato e se ne offre solo una sintesi; ma ciò che colpisce in questa seconda parte è che la tenuta argomentativa perde compattezza, lasciando affiorare qualche crepa. Crepa interessante, però, perché occasione di un dibattito auspicabile per le sorti della disciplina incriminata.
Tre i nuclei in discussione:
1) il primo, e forse più marginale, si incardina sulla rappresentazione della figura del docente, contrastante sia con la percezione comune sia con la realtà. Per suffragare la preoccupazione sul futuro dei dipartimenti di antichistica, l’autrice afferma che i dipartimenti di lettere classiche formano la figura professionale del docente di italiano-greco-latino nella scuola assicurando a giovani talentuosi – che hanno speso energie e risorse nell’onorevole percorso di studi classici – l’agognato “posto fisso” e la possibilità, grazie ad esso, di proseguire il lavoro di ricerca nella disciplina:
perché ampi strati sociali si accostino a livello universitario ad una disciplina, questa disciplina deve offrire sbocchi lavorativi dignitosi e ragionevolmente certi.[…] In Italia la possibilità della docenza secondaria, spesso scelta di elezione, talvolta piano B che finisce per appassionare, ha fornito a moltissimi antichisti la possibilità di avere un buon impiego legato proprio alle discipline classiche e ai saperi umanistici in genere. E infatti non è raro incontrare dietro le cattedre di molte scuole italiane professori che arricchiscono la loro docenza con l’impegno (spesso a titolo volontario) nella ricerca scientifica, portata avanti con rigore e metodo. (p.109)
Tralasciando quello spesso a titolo volontario, che mi sembra confliggere con l’idea di giustizia sociale più volte richiamata dall’autrice, qui si vagheggia un ipotetico “buon impiego” che, se in un mondo ideale potrebbe avere moltissimo senso, nel qui e ora denota una conoscenza parziale dell’immagine pubblica dell’insegnante, figura svuotata di dignità e riconoscimento (“gli insegnanti hanno i pomeriggi liberi e tre mesi di vacanza” solo per citare un luogo comune ancora diffusissimo) e ridicolizzata da trattamenti salariali al limite della vergogna (basti leggere le tabelle comparative degli stipendi europei che periodicamente trovano spazio sulla stampa nazionale). Quale famiglia, oggi, investirebbe negli studi universitari del proprio figlio auspicando per lui una fulgida carriera nella scuola pubblica? Una carriera che prevede avanzamenti praticamente inesistenti e dove – fatta salva la donazione annuale dei 500 euro della Carta Docente – la formazione in itinere che ne garantisce la professionalità se non persino il materiale per il lavoro in classe richiede investimenti a titolo personale. Quale idea di “docente” ha Borgna per sbandierarla come efficace antidoto allo spegnimento degli studi classici? E non è discutibile altresì alludere alla possibilità della docenza come strada di serie B per ottenere quel tanto di supporto economico che permette poi di dedicarsi ad altro?
Abbandoniamo per un attimo la questione: ma sia chiaro che quello che poco convince, qui, è il profilo professionale di un docente del XXI secolo sotteso al ragionamento dell’autrice.
2) C’è un problema di pertinenza linguistica. Alice Borgna nel suo discorso demolisce con intelligente ironia una pluralità di stereotipi che si abbattono da sempre sul mondo delle lettere classiche: dal chi va bene in latino va bene anche in matematica al perché voi classicisti fate tanto le vittime?, affermazioni che vengono abilmente decostruite e in alcuni casi riformulate. Succede però che al momento di rispondere alla domanda cruciale per il futuro della disciplina, ovvero “perché studiare il latino?” oggi – un tempo in cui a essere messa in discussione è l’opportunità dello studio di una lingua ostica, quando ormai le traduzioni sono disponibili e a portata di click – l’autrice risponda quasi esclusivamente in questo modo:
perché risponde alla domanda di italiano delle persone, perché rappresenta l’unica funivia in grado di aiutare nella scalata dell’italiano (p.118)
Mi pare che qui si ricada in uno dei più abusati luoghi comuni sul perché, appunto, valga la pena studiare il latino. Da decenni si discute dell’importanza che la scuola ragioni con i ragazzi sulle strutture linguistiche dell’italiano in modo autonomo, per realizzare quell’educazione democratica fortemente auspicata dalle Dieci tesi in avanti. E non credo esistano conferme di sorta sul beneficio che proprio lo studio del latino porterebbe all’innalzamento dei livelli di comprensione dell’italiano, mai così bassi secondo la retorica fallimentare che pervade il discorso sulla scuola nei titoli della stampa nazionale (a questo proposito si veda anche la recensione di Simone Giusti). Quando Borgna, riferendosi alle matricole universitarie scrive:
Non appena si rendono conto che le ore di grammatica latina li aiutano ad essere parlanti e scriventi italiano più consapevoli e che certe nozioni per loro astratte […] in latino sono plastiche e visibili, allora davvero nell’aula si accende un faro da stadio, gli studenti capiscono il famoso perché studiare la lingua latina e sono loro stessi a dispiacersi che sia stata tolta da così tante scuole. (p.123)
non è forse che questa “consapevolezza” discenda più che dai poteri intrinsecamente salvifici del latino, da una metodologia di indagine contrastiva che in effetti funziona perfettamente ma che potrebbe offrire risultati altrettanto produttivi indipendentemente dalle lingue comparate? L’attenzione che Borgna focalizza sul latino andrebbe a spostarsi, in questo senso, sull’approccio di didattico specifico, capace davvero di ottenere risultati significativi. E questo introduce l’ultimo punto.
3) Dare senso allo studio dei classici è compito del contenuto della disciplina o piuttosto dell’approccio pedagogico con cui si guidano gli studenti? Questo – secondo me – è un quesito interessante, capace di offrire delle risposte alle preoccupazioni dell’autrice. Mi sembra però sottovalutato nel volume e semmai relegato alla didattica condotta nelle aule universitarie. Funziona invece già da molto prima: vediamo perché.
Alice Borgna è convinta, e lo è anche la sottoscritta, che
l’aver depauperato tutta la scuola secondaria soprattutto dei suoi contenuti umanistici ha avviato anche in Italia il processo di creazione di una scuola di massa povera di contenuti, rispetto a cui il liceo classico rischia di incancrenirsi nella natura di fortino delle élite, scelto più per le persone che lo frequentano che non per le materie studiate. (p.110)
E però: la tanto agognata democraticità dello studio dei classici è assicurata solo dalla sopravvivenza dello studio della lingua nei licei? O il problema presenta più sfaccettature? Io credo che l’imbuto dentro il quale far attraversare il quesito sia quello dell’urgenza di vivificare, nella scuola, lo studio di quelle che definiamo lingue morte. Si badi però che questa vivificazione non può limitarsi all’abilità affabulatoria che a titolo personale un docente potrebbe possedere. Qui si tratta di qualcosa di molto più scientifico, che chiama in causa le competenze didattiche del docente acquisibili solo tramite specifici percorsi di studio e formazione. Compito indiscutibile dell’insegnante è abbattere, a suon di spallate metodologiche, la barriera che si frappone tra gli studenti e lo studio delle lingue classiche. Che è, lo evidenzia lucidamente Borgia, la reticenza nei confronti di una disciplina oggettivamente difficile, che richiede tempi distesi di esercizio e riflessione. Lo stress da latino è un’esperienza comune a tanti ragazzi e genitori. Prova ne sia che il latino costituisce una delle discipline che richiede più di frequente il ricorso al mercato sommerso ma vivacissimo della “ripetizione” (con il beneplacito, a volte, dello stesso docente curricolare). E dunque? Quali famiglie sono in grado di sostenere un percorso di studi che potrebbe richiedere un esborso in termini economici per mettere al riparo il figlio dal rischio dell’insuccesso? Meriterebbe si facesse strada, oltre alla solita narrazione sull’incapacità dei giovani d’oggi di sopportare la fatica, l’ipotesi di riformare in senso dichiaratamente inclusivo le lingue classiche con scelte didattiche che non siano però quelle della rinuncia allo studio della lingua in favore della lettura in traduzione o della mutilazione di conoscenze. La didattica del greco e latino nella scuola – ben prima che altrove – andrebbe ripensata sulla base dell’innovazione delle metodologie didattiche i cui studi stanno compiendo passi da gigante, e che sembrerebbe il liceo non abbia ancora recepito in modo omogeneo. Sono le attività delle ore curricolari a dover essere drasticamente riformulate alla luce delle possibilità offerte – cito solo alcuni esempi – dalla didattica cooperativa e laboratoriale, capaci di rendere lo scoglio traduttivo un processo sfidante di scoperta condivisa e attiva, dove l’oggetto linguistico non sia più percepito come parte di un’entità morta da secoli, ma offra piste di significato vitali e stimolanti anche in una dimensione comparativa con la lingua/le lingue materne. E di pari passo andrebbe compiuta una riflessione seria in ambito valutativo, per definirne sia l’oggetto, sia il modo che la finalità: anche in questo senso si combatte la lotta per un’inclusività che diventi assicurazione di futuro per i classici.
Forse, su questo, Alice Borgna avrebbe potuto riflettere in modo più circostanziato. Resta, però, il suo un contributo convincente e oserei dire necessario per stimolare un dibattito che eviti ai classici non tanto la cancellazione quanto piuttosto la complicità con quello che Chimamanda Ngozi Adichie – donna nera vivente – ha definito “il pericolo di un’unica storia” .
Noterella a margine: il mio plauso, se non la riconoscenza, va ad Alice Borgna per il capitolo 8 “È qui la festa? Sì, ma non per te. Gli esclusi”. Un’analisi lucida e spietata sul rapporto tra meritocrazia e parità di genere. Nel terzo millennio abbiamo bisogno, ancora, che queste cose ci vengano ricordate.