Recensione di La grammatica presa sul serio. Come è nata, come funziona e come cambia, di Raffaele Simone, Laterza, 2022, pp. 248
In questi ultimi anni Raffaele Simone è tornato a scrivere libri sul linguaggio per il grande pubblico, e visti i precedenti, basti pensare al tanto fortunato Fondamenti di linguistica, che ha avuto più di trenta ristampe, c’è da scommettere che anche questi più recenti riscuoteranno un certo successo. Si tratta del Software del linguaggio, uscito nel 2020, e della Grammatica presa sul serio – su cui ci soffermeremo – pubblicato nel giugno del 2022.
I due libri affrontano temi in parte simili, con il secondo che approfondisce e completa quanto era stato trattato nel primo. Nella Grammatica presa sul serio, Simone infatti affronta questioni che sono state, e sono centrali, nello studio delle lingue e del linguaggio: che cosa si deve intendere con il termine grammatica, come funziona il linguaggio, quali differenze e quali costanti esistono tra le lingue, come evolvono ecc.
La locuzione avverbiale presente nel titolo del libro indugia sul significato profondo del termine grammatica, considerata non come un insieme di regolette e di prescrizioni, ma come un meccanismo che permette agli uomini di esprimere la propria esperienza del mondo, e ancor prima di organizzare le loro rappresentazioni mentali. Già dal titolo, Simone ci avverte che, “presa sul serio, la grammatica dice molte cose non solo sulle lingue, ma anche sulla natura degli umani” (p. 4; cap. I).
Ma che cos’è dunque la ‘grammatica’ e come si può rappresentare? Per chiarirne la complessità, Simone utilizza diverse metafore: la grammatica è paragonata a un arcipelago, a una ‘rete di reti’, a un oggetto multidimensionale (cap. II). Eccone descritte le ragioni.
Proprio come un arcipelago, la grammatica è formata da elementi di diversa grandezza e stabilità, da isole – continuando la metafora – più interne e più resistenti all’azione del tempo, e da isole più esterne e più soggette ai cambiamenti. Nonostante l’eterogeneità dei suoi componenti, l’arcipelago ha però una sua stabilità di base, perciò se si modifica in una sua parte, per compensazione, diventa più stabile in un’altra, se in alcune parti si semplifica, in altre diventa più complesso.
La grammatica si può anche immaginare come una ‘rete di reti’, come un sistema costituito da tanti sottosistemi, differenti per densità – da intendersi come “il numero delle forme disponibili e, per conseguenza, la quantità di passi necessari per scegliere quella giusta” (p. 43) – e per regolarità, nel senso che i sottosistemi sono asimmetrici: “una data regola vale nel settore A, ma non nel settore B, dove se ne applica un’altra” (p. 45). Se tutte le lingue hanno una grammatica complessa, è sbagliato considerarne alcune più complesse, o addirittura più logiche di altre. Tutte le lingue sono pienamente sviluppate, tutte possono esprimere, seppur con mezzi differenti, ciò che i parlanti vogliono e devono comunicare. Esistono lingue, come viene spiegato nell’ultimo capitolo del libro, che “possono funzionare anche con un ‘minimo di grammatica’, o, se preferiamo, con una ‘grammatica minima’ (p. 207), come ad esempio il riau, che “non distingue classi di parole e permette di mettere le parole in qualunque ordine” (p. 208). Esistono certamente lingue come quelle suindicate, ma non per questo esse risultano più oscure di altre o inadatte a esprimere tutto ciò che l’utente ha bisogno di esprimere.
Infine, la grammatica è un “oggetto multidimensionale a più livelli stratificati, di diversa natura e importanza” (pp. 32-33). Riprendendo un’ipotesi di Jakobson, secondo cui la lingua ha un’organizzazione a strati, uno più profondo e più stabile, e uno più superficiale e più precario, Simone distingue tra una Grammatica Profonda, di cui fanno parte fenomeni complessi e astratti, e una Grammatica Superficiale, che comprende fenomeni di superficie, come l’accordo o la flessione delle forme variabili, più evidenti ma anche di minor rilievo, anche se spesso sono gli unici ad essere trattati, in tv o sui social, dai cosiddetti divulgatori della ‘buona’ e corretta grammatica.
Da quanto detto sopra circa la complessità della grammatica, si capisce anche perché, almeno in superficie, ogni lingua abbia una grammatica propria, cioè propri mezzi, o ‘attrezzi’, per permettere ai parlanti di organizzare a livello cognitivo l’esperienza del mondo e comunicarla (cap. V). Quale sia il numero esatto di questi ‘attrezzi’ e il motivo che fa sì che nella “cassetta” della lingua ci siano proprio determinati “attrezzi” e non altri, è difficile saperlo. Alcuni sono peculiari di alcune lingue o gruppi di lingue, come gli articoli, altri sono presenti in tutte le lingue conosciute e perciò considerati universali, come la negazione.
Tra gli attrezzi più “tipici o significativi” (p. 104) troviamo la differenza tra verbi transitivi e intransitivi, di per sé “volatile, in quanto molti verbi ruotano da una posizione all’altra e altri ancora possono avere entrambe le strutture argomentali” (p. 120); gli aggettivi, che svolgono l’importante funzione di modificare i nomi; l’evidenzialità, cioè “l’insieme dei mezzi grammaticali per indicare se si parla per conoscenza diretta o no” (p. 151); e poi ancora il verbo essere, assente nella funzione di copula in molte lingue del mondo, la coordinazione, la negazione, ecc.
Le lingue, essendo sottoposte all’azione del tempo, evolvono, e così le loro grammatiche. (cap. VII). Riprendendo una nota ipotesi di Jakobson sulla loro organizzazione interna, per Simone le lingue cambiano seguendo una parabola inversa al modo in cui si sono formate: dapprima si modifica lo strato più esterno, quello che si è costituito secondariamente, poi lo strato più interno, il primo a formarsi e perciò il più resistente al cambiamento. Nel loro evolversi le lingue seguono direzioni prevedibili e coerenti, tanto che per alcuni fenomeni è possibile individuare dei ‘cicli’. Ne citiamo alcuni (cap. V), cominciando dal ciclo individuato da Jespersen sulla negazione: inizialmente essa occupa la posizione preverbale; successivamente viene a trovarsi, duplicandosi, sia prima sia dopo il verbo; infine, occupa solo la posizione postverbale. È quanto è accaduto ad esempio al francese: Je ne vois la route 🡪 Je ne vois pas la route 🡪 Je vois pas la route (p. 142).
Un altro ciclo è quello della preposizione con, che da “marca di accompagnamento” (significato Comitativo: È arrivato Luigi con Carlo [= Luigi e Carlo sono arrivati])” (p. 160), ha assunto significati diversi: reciproco (“Carlo sta parlando con Luigi = Luigi e Carlo stanno parlando”), strumentale (“Lo ha colpito col bastone”), sincronico (“È uscito con la pioggia”), sincronico/avverso (“È uscito con tutta la pioggia”), di maniera (“Sta parlando con la solita flemma”) (per tutti questi esempi, p. 161).
Se la grammatica di ogni lingua, come si è mostrato, è complessa, disorganica e mutevole, è possibile definirla, almeno nei suoi aspetti più caratterizzanti, e comprenderne l’origine e il modo in cui si è evoluta? (cap. VIII). Simone prova a farlo.
Definisce il linguaggio un “ibrido bio-culturale”, una facoltà in parte derivante da “costrizioni universali imposte dalla natura dell’organismo” (pp. 16-17), in parte prodotto da fattori culturali; mentre sulla sua comparsa ed evoluzione, partendo da alcune congetture più recenti, arriva ad avanzarne una propria, basata sull’idea jakobsoniana che “l’unica occasione di osservare il linguaggio umano in statu nascendi ce la offre il bambino” (Jakobson, 1971: 11). Osservando il linguaggio della nipotina, soprattutto nelle sue fasi iniziali, quando la piccola Emilia aveva poco meno di un anno, Simone ha notato che esso era “composto da due tipi di elementi: un numero limitato di voci lessicali (solo nomi) e un numero relativamente elevato di marcatori pragmatici” (pag. 216-217). Se le cose stanno in questo modo, allora è probabile – conclude Simone – che “prima ancora della protolingua senza grammatica e delle diverse fasi della grammatica vera e propria, esista una protolingua fatta essenzialmente di segnali pragmatici” (p. 217). E portando avanti il ragionamento, relativamente all’evoluzione delle lingue aggiunge: “questo suggerirebbe di assumere una diversa evoluzione delle lingue: prima una pragmatica di base, poi il lessico elementare, infine la grammatica vera e propria” (Ibidem).
Pur essendo un libro accessibile a tutti per la chiarezza e il modo seducente in cui è scritto, La Grammatica presa sul serio non è un libro facile; non solo perché i fenomeni trattati sono numerosissimi, e in non pochi casi noti esclusivamente agli studiosi (come il concetto di ciclo, o quello di evidenzialità, per limitarci a qualche esempio), ma anche perché essi sono affrontati attraverso prospettive di analisi differenti: la prospettiva diacronica, e soprattutto quella sincronica e tipologica-funzionalista, basata cioè sul confronto interlinguistico. Tuttavia, proprio per la sua ampiezza, La Grammatica presa sul serio si presenta come un libro fondamentale, un libro che fornisce gli strumenti per orientarsi all’interno di quel sistema asimmetrico, caotico e assai complesso che è la lingua.