(Foto di copertina di Marco Beltrametti; Licenza Creative Commons; Copyright: @mbeo2017)
Un salto veloce nel web alla voce ‘sigle e acronimi nella scuola‘ permette di avere l’ultimo aggiornamento relativo alla presenza di queste ‘parole’ nella vita di tutti i giorni di chi – insegnanti o studenti – è nella scuola. Carmelo Nesta, colui che ha la pazienza di tenere sotto controllo il fenomeno, scrive di oltre 500 nuove presenze al gennaio 2021.
Si sa che questi nomi speciali hanno una precisa funzione: quella di abbreviare i tempi e di facilitare il passaggio di informazioni tra chi scrive o parla e chi legge o ascolta. Il fenomeno non è nuovo, anzi è antico; gli antichi, ad esempio, se ne servivano per problemi di scrittura e di iscrizioni. In sé non è condannabile ma solo da governare con giudizio.
Oggi appunto il fenomeno ha messo profonde radici nella scuola e nella pubblica amministrazione, e ha dato in pochi anni frutti copiosissimi. Ha naturalmente tanti e interessanti risvolti nel mondo della comunicazione e nel linguaggio dei giovani; nei social ha un peso rilevante. Nella scuola ha creato non poco disorientamento; a partire dalla fine degli anni ’90 in particolare, ha cambiato il modo di pensare e di vivere di tanti insegnanti. Chi c’era in quegli anni, può ricordare il POF, il PEI, il PSTD, il MUSE, solo per fare qualche esempio; e può ricordare gli imbarazzi di chi, allora, ha cominciato ad avere problemi ‘fatici’, di contatto e di relazione col DS (il vecchio preside) o con i SA (Soggetti in Apprendimento) o con gli OC (Oggetti Culturali).
Viene da chiedersi se le difficoltà della scuola, che sono sotto gli occhi di tutti, siano cominciate dai nomi o dalle cose. Quel che si vede è un diffuso disorientamento e, in certi casi, un vero e proprio smarrimento. A rendere drammatica la situazione ieri è intervenuto il virus con tutti i problemi che ha portato, a cominciare dalla scuola sospesa e dalla DaD, didattica fatale.
Non sono un nostalgico della vecchia scuola (di quella che non hanno amato don Milani o Gianni Rodari o Mario Lodi), ma penso che una bonifica del linguaggio sia oggi quanto mai necessaria. Confesso di aver sempre temuto di diventare con gli anni un laudator temporis acti; sono però convinto che ritrovare il senso di alcune parole, che sono sempre state le parole dell’educare, possa se non altro far riscoprire un poco del piacere di stare a scuola.
Provo a scriverne qualcuna cercandone il significato aiutandomi con uno sguardo alla radice: ethimos fa pensare all’anima, allo spirito del termine. Prima ancora della parola mi è venuta in mente la cosa: mi sono visto il docente in classe che parla, risponde e ascolta, in una parola l’insegnante ‘attore’. In effetti, chi insegna agisce con la lingua. La lingua è azione e chi la usa deve usarla con mille attenzioni e tanta cura.
In un mai vecchio e sempre prezioso manuale di educazione linguistica di Monica Berretta si trovano pagine esemplari che richiamano alle responsabilità che gli insegnanti hanno quando interagiscono con gli studenti con gesti e parole. Della studiosa mi limito a riportare i richiami a prestare la massima attenzione al disaccordo sulla relazione che – diceva – può essere espresso con un rifiuto della posizione dell’interlocutore, oppure, e più pesantemente, ignorando del tutto l’interlocutore, i suoi atti e le sue volontà, arrivando alla sua disconferma, in una parola, alla sua negazione; e ricordo le sue sollecitazioni alla prudenza nel fare uso di risposte tangenziali o nell’inviare messaggi paradossali (Monica Berretta, 1977, Linguistica ed educazione linguistica, Einaudi: Torino, pp. 62-63).
E quindi. Nella propria aula l’insegnante è innanzitutto ‘attore’, con tutta la polisemia della parola e i ricchi rimandi semantici ai quali il termine fa pensare: teatralità, finzione, gestualità, movimento, autenticità, credibilità, sensibilità, attenzione per chi ascolta, sintonia con chi partecipa. Attore – se mi sono permesse alcune fascinose suggestioni che arrivano dalla tentazione delle facili e ingenue etimologie – viene, se si ascolta Marrou, da agere, spingere avanti qualcuno o qualcosa (Henri-Irénée Marrou, 1966-1978, Storia dell’educazione nell’antichità, Edizioni Studium: Roma). Se ci teniamo fermi a questa iconica etimologia, nell’agire di chi insegna c’è l’idea dello spazio fisico, del movimento, dell’agire per far arrivare qualcuno da qualche parte. Idea che allontana dalla cattedra, dalla fissità della sedia, e apre allo spazio – fisico qui – da scoprire, da conoscere e da gestire. Si potrebbe chiamare la modalità del moto o, anche, della teatralità inconsapevole e spontanea del muoversi sul palcoscenico dell’aula. O anche – se si vuole – del viaggio.
La seconda parola alla quale penso è insegnare. Il verbo ha una etimologia chiara e trasparente: viene dalla unione di ‘in’ intensivo col verbo ‘segnare’, imprimere segni su qualcosa. Da cui, con uno scivolamento verso l’astratto, insegnare col significato di ‘imprimere segni nella mente di qualcuno’ naturalmente. Ma, pensando che in lingue a noi vicine insegnare e apprendere hanno un significato biunivoco, si potrebbe dire che in questo atto i segni si imprimono anche nella mente di chi agisce. Insegnare è anche apprendere: chi in classe insegna, apprende dai suoi studenti, riflette e ricerca. Naturalmente, il sale sta nel fare tutto ciò con consapevolezza.
Insegnare e apprendere non si possono quindi pensare separati: Wittgenstein pensava davanti ai suoi allievi ma, quando gli capitava, pensava con i suoi allievi. In francese maestro e studente sono uniti nell’unica azione dell’’’apprendre’.
La parola-chiave di questo verbo – il più usato per indicare il bel mestiere del comunicare e trasmettere conoscenze – è naturalmente ‘segno’ (Per la polisemia di ‘segno’ rinvio a Gardini Nicola, 2018, Le 10 parole latine che raccontano il mondo, Garzanti: Milano, pp.35-36); e in una società e in tempi in cui il segno ha un posto centrale – viviamo regolati da segni, segnali, segnalazioni, e tanto altro che segna – si capisce quanto ‘insegnare’ sia importante. Che allora, prioritariamente, si può dire rimandi a ‘educare a leggere e decodificare segni’.
La storia dell’insegnare-apprendere suscita un’altra suggestione. Fa pensare alla priorità dell’ascoltare decentrati piuttosto che a quella del parlare da protagonisti. In questa prospettiva, tutto è rovesciato, nel senso che il punto di partenza diventa il punto di arrivo, la sintesi sostituisce l’anticipazione, il tirare le fila prende il posto del proporre, il riordino e la sistemazione sostituiscono la presentazione e la spiegazione.
La terza parola che mi viene in mente è ‘educazione’. Ma su ‘educazione’ si è già detto tutto e il contrario di tutto; stringerò il campo sul sintagma ‘educazione linguistica’. Innanzitutto perché nel nostro caso al nome è necessario aggiungere l’aggettivo (linguistica appunto) che tiri fuori il nome dalle nebbie del vuoto o dal generico; subito dopo perché mai come per la lingua il nome riesce a recuperare il suo più naturale significato.
‘Tirar fuori’ si contrappone in radice al portar dentro: si tira fuori ciò che già c’è. La lingua è un patrimonio dato che si potenzia, si arricchisce, che si porta a consapevolezza; è lo strumento che aiuta a ragionare, a entrare nei meccanismi, nelle leggi, nei nomi delle cose che sono e che sono state, nei nomi che fanno conoscere il mondo; è ciò che unisce e tiene insieme uomini uguali e diversi. Il sintagma è nato per sgombrare il campo dell’equivoco della lingua che si insegna: della lingua che c’è ci si impadronisce lentamente, con l’aiuto di tutti. La lingua educa e spinge in avanti: fa guardare avanti e indietro, è storia e futuro, ed è ciò che ci permette di stare dove si è con consapevolezza e piacere.
L’ultima parola alla quale, per ragioni di spazio, penso è ‘studente’. In questa parola sta il cuore del problema di ciascuno di noi, di noi insegnanti impiegati e funzionari di uno Stato, di noi cittadini di una repubblica democratica fondata sul lavoro. Viene da ‘studium’ derivato di ‘studere’, ‘dedicarsi a qualcosa’. Se guardiamo alla forma del verbo dovremmo chiederci a che cosa si sta dedicando chi studia con noi. È una bella e complessa domanda.
Credo si debba guardare al problema dal punto di vista nostro per capire che cosa dobbiamo e possiamo offrire a chi impara perché questi si applichi; in altre parole, un oggetto al quale lo studente si applichi. Ma, sull’altro versante, guardare a che cosa – chi impara – si stia soggettivamente dedicando.
Rispondere a questo ultimo quesito penso sia il problema dei problemi: si tratta di conoscere chi è, oggi, chi ci sta davanti ogni giorno, e di sapere ciò a cui costui si dedica con cura. Se penso ai fondamentali, devo dire che non ho mai creduto a trasformazioni epocali e radicali dei giovani di oggi. Penso che – come ieri – i giovani studenti abbiano ancora bisogno di sentirsi ascoltati, apprezzati, valorizzati, e, come ieri, penso che abbiano più che mai bisogno di affetto, di cure e di speciali attenzioni.
A che cosa dedicarsi e a che cosa indurre a dedicarsi? Qualche mese fa leggevo alla mia nipotina più piccola (dieci anni) le ultime righe di Ciaula che scopre la luna. E qualche poesia di Saba. E una o due poesie di Orelli. E due o tre cose di Caproni. Insieme a un po’ di musica della Pioggia nel pineto. Non ho trovato resistenze. Quel che è rimasto è una comune soddisfazione e voglia di non fermarsi. Negli ultimi anni del mio lavoro una collega di scuola elementare mi aveva chiesto di andare nelle sue classi e di leggere ai bambini di quarta e quinta un po’ di poesia. Quando incontro gli studenti diventati adulti di quelle classi, loro mi ricordano le mie visite. Mi spiace che la normalità passi per eccezionalità.
Qualche buon ascolto in più rispetto al continuo guardarsi in piccoli schermi in mano potrebbe essere un buon ricostituente.
L’ultima parola – intrigante, e oggi provvisoriamente fondamentale – è DaD. È una fatalità? È una risorsa? È un bene prodotto da un male? Come per ogni cosa nuova che accade, il giusto atteggiamento è quello di cercar di capire con animo aperto e mente lucida. Ciò che è stata la DaD fin qua è sicuramente da considerare una risorsa, il mezzo che ha tenuto aperto un canale di comunicazione tra studenti e insegnanti in un momento di emergenza. È stata anche una inusitata modalità di apprendimento. E anche qualcosa a cui pensare in termini di potenzialità future. Insomma, un nome e una cosa da non demonizzare e con cui fare i conti senza pregiudizi.
Gli studenti (e non un vecchio insegnante) sono con i loro banchi davanti alle scuole perché vogliono guardare negli occhi, sentir muoversi, ascoltare, veder agire i loro insegnanti. E i loro compagni. E parlare con loro guardandoli in viso e sentendo le loro fisicità. Per quel che ho capito, pensano che apprendere-insegnare sia ancora la relazione di sempre. Pensano anche loro ai fondamentali?